9 ottobre 1963 - 9 ottobre 2013: 50 anni di Vajont
Nel cinquantennale della tragedia che ricorrerà il 9 ottobre prossimo, mi vengono spontanee alcune riflessioni che ritengo doveroso parteciparvi.
Passai in quella valle quasi per caso, oltre 25 anni fa, in moto.
Una escursione motociclistica domenicale estiva come tante, tra le prealpi venete e friulane. Da Treviso a Sacile, Maniago, e poi su per la Valcellina, per la stretta strada che affianca l'orrido, e le gallerie ancora con il fascio littorio sui portali. Una bella sosta al lago artificiale di Barcis, e poi, buttando l'occhio, leggo l'indicazione: Longarone. Penso ad un ritorno via valle del Piave, Fadalto, Vittorio Veneto e Conegliano, quindi, anziché ritornare indietro, proseguo verso Cimolais, risalgo i tornanti, giungendo ad uno strano passo: il Passo di S.Osvaldo, chiuso da un muro, ove esisteva un arco per il passaggio a senso unico alternato. Occorre fare attenzione, il muro sul culmine limita la visibilità in ambo i sensi di marcia, e mi chiedo perché un passo dovesse essere chiuso in tale modo. Seppi poi che si trattava del "Muro della Vergogna", costruito per chiudere militarmente ed idraulicamente la valle del Vajont dopo la tragedia. Opera assurda e inutile, ormai rimossa.
Proseguo lentamente ancora ignaro, sino a che vedo un cippo indicante la distanza da Erto. Realizzo in che valle mi trovo, ed infatti, poco dopo, sulla sinistra mi appare una montagna strana, scorticata, con una superficie rocciosa liscia in vista. Passata Erto la strada non segue più un andamento regolare, ma si inerpica su un'enorme massa di terra con pochissima vegetazione;.sto correndo sulla grande frana del Vajont, e di lì a poco vedo quell'impressionante diga, posta come un fantasma a guardia della valle.
Una sosta è d'obbligo, alla piccola cappella, presso la diga, e mille pensieri mi pervadono.
Ci tornerò ancora, nel tempo, svariate volte al Vajont, ed anche al cimitero monumentale di Fortogna, scoprendo sempre cose nuove, trattenendo a stento lacrime che sanno di commozione, di rabbia, di umiliazione. Lacrime che cancellano ogni retorica.
Di commozione, perché non posso nemmeno immaginare ciò che quelle vittime hanno vissuto in quegli istanti in cui acqua e fango hanno cancellato una parte di mondo. Penso al trentenne geometra Giancarlo Rittmeyer, incidentalmente nato nello stesso anno in cui nacque mio Padre, e lasciato con la sua squadra quella notte di guardia alla diga, mentre col binocolo osservava i capisaldi luminosi spostarsi a valle, e le fotoelettriche illuminavano i pini che lentamente si inclinavano sotto il movimento di una frana ormai inarrestabile. Assieme ai suoi uomini presenti in quel frangente, scomparirà nella tragedia, ed il suo corpo sarà trovato mesi dopo una trentina di kilometri più a valle......
Di rabbia, perché interessi di pochi, politica sporca, ingordigia, inettitudine e dio denaro, hanno annientato 1918 persone in pochi minuti, nonostante tutti gli avvertimenti ed i segni premonitori dei mesi precedenti il disastro. Molare, il Gleno, Malpasset e Pontesei, evidentemente non avevano insegnato abbastanza...o forse la vita umana, per certe persone, non valeva proprio nulla....
Di umiliazione, come italiano e come veneto, dopo le parole scritte da un paio di giornalisti, peraltro quotati, uno dei quali descriveva la catastrofe come imprevedibile colpa della natura, l'altro invece la buttava in battaglia politica, facendo passare tutto sommato la cosa come ineluttabile, ed invitando la gente a non polemizzare, ad accettarla senza troppe lamentele e rimettersi al lavoro per riparare ai danni, come se avessimo bisogno di simili esortazioni....se quelle due penne fossero rimaste in quei giorni nei relativi taschini anziché appoggiarsi sui taccuini per scrivere simili fesserie, l'umanità intera ne avrebbe tratto giovamento.
Grande l'impatto mediatico nel 1997 dell'orazione civile di Marco Paolini, che mi onoro di conoscere personalmente grazie alla comune passione per i treni. Un'opera di divulgazione doverosa, che solo di recente ha ridato la giusta visibilità ad una strage allora dimenticata, e che ha svelato sicuramente molteplici aspetti della vicenda.
Ho acquistato da allora molti libri sull'argomento, ho scritto su Tuttotreno 168 un articolo pubblicato nel quarantennale del disastro, nell'ottobre del 2003, dove illustravo la storia e gli effetti dell'alluvione sulla ferrovia Ponte nelle Alpi - Calalzo, compresi 22 ferrovieri morti assieme alle loro famiglie; alcune immagini pubblicate le devo al grande "Bepi" Zanfron, fotografo bellunese che tra i primi si recò in quei posti per soccorrere i superstiti e documentare l'accaduto.
Al tempo della catastrofe io non avevo ancora un anno di vita; abitavo con i miei lontano dal Vajont e dal corso del Piave. Oggi abito a 300 metri di distanza da quel fiume, e in quelle acque transitarono resti e corpi di parte di quelle vittime, rinvenuti alla foce di Cortellazzo, vicino a Jesolo. Ma la lontananza di quel tempo non ha impedito il formarsi in me di una piccola ferita, che si fa sentire tutte le volte che passo in quel posto, e che mi ha spinto a scrivere queste righe per commemorare, 50 anni dopo, tutte quelle persone scomparse, perché ciò che è accaduto non cada nell'oblìo.
Da questi eventi l'uomo dovrebbe trarre un grande insegnamento: la natura mal si presta ad essere piegata; chi non la rispetta, prima o poi, ne paga le conseguenze.
Non dimentichiamo.
LV